lunedì 12 settembre 2011

La canzone popolare sambenedettese

Barchette che file

Barchette che file,
su l’onde marine,
‘na voce argentine,
reccitte nghe te,
Jè vòce…, jè cante…,
de gioje e de pene,
de mille serene
che ‘ntorne te ve’…
Lancette che stinne
su l’acque argentate.
la rete affatate,
che ricche te fa…
Retira, felice,
‘ssa rete d’amore,
e sarba llù còre,
che n’ pozze scurdà!…
Barchette che a sere,
sull’onda ‘ndurate,
a vela spiecate,
a terra arevì,
Reddà quisse còre,
che tu sci’ pescate,
a chi, desperate,
t’ accenne a venì!…

LA PESCA A SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Per quanto riguarda l’economia sambenedettese dobbiamo dire che essa si è sempre identificata con la pesca. Non siamo in grado di stabilire il momento di avvio della commercializzazione del pesce ma dobbiamo dire che dal 1700 in poi, con le immigrazione di famiglie già appartenenti al più generale contesto Adriatico, ha inizio un decisivo sviluppo dell’attività peschereccia sambenedettese.
E’ certo, comunque, che il normalizzarsi delle comunicazione, il loro rendersi sicure, favorisce la crescita di altre attività lavorative, quali quelle di Vetturini  e di Carrettieri con somaro, attraverso le quali si avvia un sistematico commercio che riguarda nello specifico tutto l’entroterra Piceno ed Umbro e più genericamente tutto lo Stato della Chiesa, con penetrazioni anche nel Regno di Napoli.
Subito dopo la metà del ‘700 a San Benedetto giungono alcune imbarcazioni denominate Paranze, di origine meridionali, le quali soppiantano gradualmente altri modelli di scafi pescherecci. Queste sono barche che viaggiano e pescano a coppia, più piccole degli ingombranti tartanoni pontifici e più efficaci e veloci dei bragozzi veneziani in uso sino ad allora.
Nel 1763 a S. Benedetto vi sono 12 tartane ma queste già sono scomparse dieci anni dopo e, sin cui si contano, proprio nel 1773, 20 paranze. Le paranze, come abbiamo detto, potevano pescare “soltanto a coppia” una tecnica che si realizza attraverso una rete tirata da due capi posti ciascuno di essi a poppa di una paranza.  Una prassi quanto mai redditizia, assistita dal sistema di riportare a terra il pescato con un’imbarcazione più piccola (un semplice battello che lo sbarzoccousava come vero e proprio collegamento con la paranza, utilizzato per trasportare il pesce a terra ma anche per il caricamento dei viveri), che consentiva alle barche più grandi di rimanere in campagna di pesca per più giorni.
Una vera e propria rivoluzione tecnologica che moltiplica il pescato, che apre orizzonti assai più vasti ai mercati, che incentiva l’applicazione di quanti hanno propensione per quelle attività e denaro da investire. Gli ampi spazi disponibili alla “Marina” invitano ad aprire cantieri, a costruire magazzini, ad avviare nuove imprese, ma ci sono altre condizioni incentivanti legate all’apertura dei mercati dell’Ascolano e transappeninici, resisi ormai più sicuri e più pervii ai coraggiosi commercianti che viaggiano con le ceste e gli asinelli. L’ottima posizione di S. Benedetto, comunque periferica dello Stato Pontificio, ma centrale rispetto a tutte le direzioni, allarga lo sguardo anche a sud, a ragione della contiguità col Regno di Napoli, pressochè priva di attività pescherecce in tutto il litorale Teramano, ove non esistono ostacoli sino a Giulianova. In quella direzione si verificheranno nostre emigrazioni, ma altrettanto importanti saranno più tardi quelle di ritorno dal sud, attraverso altri lidi, soprattutto Vasto, Ortona  Castellamare Adriatico (Pescara) e la stessa Giulianova.
Nel 1809 San Benedetto contava un numero complessivo di 200 tra marinai e pescatori, con 24 paranze e 13 battelli.
Ma la flottiglia peschereccia sambenedettese era però, in quei tempi, colpita da tre memorabili incursioni barbaresche, l’una del 4 giugno 1803, l’altra del luglio dell’anno successivo. Questo significò per la marineria locale la sottrazione di ben 90 persone d’equipaggio, nell’incursione del 1803, e 40 l’anno seguente, a cui si aggiunse quella del 29 maggio 1815 quando i barbareschi catturarono altri 38 sambenedettesi, procurando sgomento e collassi di tutta l’economia cittadina.
Quei marinai, paroni, sottoparoni e pescatori resi schiavi, vennero deportati ad Algeri e Tunisi e solo per intercessione del Governo inglese, nel 1816, la maggior parte di loro poté far ritorno a casa. 
Subito dopo la restaurazione lo Stato Pontificio effettuò un censimento generale della gente di mare, intendendovi i pescatori, marinai e naviganti nelle diverse categorie. Quindi nel 1823 gli iscritti con residenza S. Benedetto erano 413.
Tra il 1824 e il 1831 le imbarcazioni raggiunsero il numero di 60, mentre nel 1820 si contavano 12 paia di paranze, 4 bragozzi e 9 lancette.


 

lancette in pesca

Di queste massicce emigrazioni, ancora oggi, a Chicago Heights, San Diego, Mar del Plata e Viareggio esistono memorie presso le comunità di sambenedettesi che hanno mantenuto rapporti con la terra d’origine.
Per comprendere questo fenomeno di portata considerevole e rimanendo all’ambito italiano, diciamo che nella sola Viareggio, i discendenti dei sambenedettesi sono un quinto della popolazione, cioè a dire circa 15.000 individui. 
In quegli anni a San Benedetto, e precisamente nel maggio del 1912, scese in mare il “S. Marco” il primo battello peschereccio con motore ausiliario varato in Italia, su iniziativa di un sacerdote, Don Francesco Sciocchetti (nacque a Ripatransone 15 Settembre 1863 da Ferdinando, arrotino di professione, e dalla sambenedettese Teresa Badaloni appartenente ad una famiglia di pescatori. Mori a San Francisco, California, il 3 Maggio 1946, ove egli stesso emigrò per stare vicino ai suoi compaesani).
Nel 1921, S. Benedetto, mentre si lavorava ancora alla costruzione del porto, annoverava 53 coppie di lancette e 9 di paranze di 800 tonnellate complessive, equipaggiate da 730 uomini.

A completare il quadro, è d’obbligo ricordare che già dal 1921 S. Benedetto era il centro di una importante industria di funi e tele di canapa; vi si lavoravano annualmente 5.000 quintali di funi di cui 400 per il consumo in paese, il resto per esportazioni anche all’estero. Alla tessitura delle reti lavoravano in casa propria circa 400 donne e 100 nei laboratori. Cinquanta le donne addette alla tessitura delle vele e 50 alla loro cucitura.